26/08/2022
La questione del divario civile e
delle aree interne. Le implicazioni per la comunità cristiana
Cosa si intende per divario civile?
Uno dei temi che più caratterizza
la questione sociale in Italia è quello del divario civile. Questa espressione
viene utilizzata per segnalare il fatto che il contenuto effettivo dei diritti
sociali di cittadinanza cambia a seconda dei luoghi, e tutto questo alimenta le
disuguaglianze territoriali. Il progetto di autonomia differenziata,
sostenuto da alcune forze politiche e dalle regioni più ricche, rende ancora
più opachi il presente e il futuro del Paese. Tali problematiche hanno
importanti riverberi anche sul piano pastorale, come si vedrà nella seconda
parte dell’articolo.
Il dibattito sul divario mostra
come in Italia le differenze territoriali non si esprimono solo sul piano
economico, e permette di andare alla radice dei processi che alimentano le
disuguaglianze, particolarmente evidenti lungo l’asse Nord-Sud, ma che si vanno
sempre più diffondendo su tutto il territorio. In uno Stato unitario ai
cittadini vanno assicurate uguali opportunità di accesso ai beni di
cittadinanza, a prescindere dal luogo di residenza e dal grado di sviluppo
produttivo locale. Tuttavia, in Italia il divario civile è più accentuato di
quello economico, ed è anche più preoccupante, poiché indebolisce il senso di
appartenenza ad un’unica comunità nazionale: “l’evidenza che un calabrese
ammalato non possa curarsi nella propria città con la stessa tempestività ed
efficacia di un lombardo è meno accettabile, sotto il profilo dell’equità,
della circostanza che lo stesso calabrese possa fare riferimento a un reddito
disponibile pari ad appena la metà di quello medio dei lombardi”.
Il divario è particolarmente
evidente non solo rispetto alla sanità, ma anche all’istruzione, ai servizi
sociali e alla questione ambientale, ovvero rispetto agli ambiti da cui dipende
la qualità e l’estensione dello sviluppo umano autentico.
Nel corso degli ultimi anni, la
forbice tra i sistemi sanitari territoriali si è allargata sempre di più, in
quanto molte regioni meridionali hanno dovuto apportare tagli significativi
alla spesa sanitaria per ragioni di squilibrio finanziario.
Tra i tanti disponibili, i dati
sulla mobilità interregionale sono tra quelli che più fanno risaltare le
carenze del sistema sanitario meridionale: ogni anno, circa 200 mila persone si
spostano dal Sud al Nord per curarsi. Sul totale dei ricoveri acuti di quanti
risiedono nelle regioni meridionali, uno su dieci si svolge in strutture
ospedaliere localizzate altrove, prevalentemente al Nord. Il costo della
migrazione sanitaria a carico delle regioni del Mezzogiorno è pari a più di un
miliardo di euro all’anno.
Inoltre, rispetto ai coetanei del
nord, i giovani meridionali partecipano di meno all’istruzione secondaria,
abbandonano di più la scuola ed esprimono mediamente un livello di competenze
inferiori.
Differenze notevoli marcano anche
i sistemi locali dei servizi sociali alla persona: tutte le regioni
meridionali, tranne la Sardegna, spendono meno della media nazionale. Più della
metà della spesa è concentrata al Nord, dove risiede circa il 46% della
popolazione, il restante 44% delle risorse è ripartito in misura variabile tra
Centro e Mezzogiorno. I Comuni del Sud, dove risiede il 23% della popolazione
italiana, erogano l’11% della spesa per i servizi sociali. La spesa sociale pro
capite del Sud rimane molto inferiore rispetto al resto dell’Italia (119 euro in
media): 58 euro contro valori che superano i 115 euro annui in tutte le altre
ripartizioni, toccando il massimo nel Nord-est con 172 euro. Le differenze
territoriali sono rilevanti per tutte le aree di intervento; ne deriva che
persone che vivono una stessa condizione di bisogno accedono a panieri di
servizi e prestazioni differenziati per territorio: ad esempio, la spesa annua
per servizi e interventi a sostegno di una persona disabile che risiede al
Nord-est è pari a circa 5.222 euro, al Sud è di circa 1.074 euro.
L’esistenza di linee di frattura
territoriali viene confermata anche da una recente indagine condotta da Caritas
e Legambiente,
che alla luce del paradigma dell’ecologia integrale tenta di connettere la
dimensione sociale e quella ambientale. Le informazioni più significative della
ricerca sono quelle inerenti alla lettura combinata delle fragilità e delle
risorse ambientali e sociali. Da questa analisi affiora l’ennesima conferma di
un paese spaccato in due, con quasi tutte le regioni del Nord collocate nel
saldo positivo, mentre quelle del Sud presentano un deficit complessivo
rimarchevole, in quanto le fragilità sociali condizionano in modo rilevante la
qualità della vita della popolazione residente. La presenza diffusa delle
organizzazioni mafiose, non estranee, peraltro, a gravi fenomeni di degrado
ambientale, come i reati ambientali, peggiora ulteriormente la situazione già
in sé precaria.
Se il dualismo economico è un
tratto che caratterizza molte economie, e può essere anche considerato come un
aspetto fisiologico della crescita, la questione del divario civile è invece
inaccettabile. Negli altri Paesi europei con regioni economicamente arretrate
non si registrano differenze analoghe sul piano della qualità e della quantità
dei servizi pubblici. Al contrario, attraverso politiche sociali efficaci, è
stato possibile ridurre la correlazione tra bassi livelli di reddito e scarsa
disponibilità quanti-qualitativa di servizi essenziali come scuola, sanità,
sicurezza e a comprimere le disparità a livello tra territori. Se il disegno di
autonomia differenziata dovesse tradursi in realtà, diventerebbero
probabilmente ancora più difficili le condizioni dei territori più fragili, con
gravissimi rischi per la tenuta complessiva della coesione sociale del Paese.
Le nuove mappe del divario civile. La questione delle aree interne
Di recente, la questione dei
divari di cittadinanza è stata rilanciata anche alla luce degli effetti del
Covid-19 e della crisi che ha innescato, forse la più profonda dal dopoguerra.
Alcuni studiosi sottolineano l’urgenza di prendere coscienza di cosa sia oggi
davvero il Mezzogiorno, senza il cui apporto diventa complicato pensare ad un
effettivo rilancio del Paese. E aggiungono che è fondamentale promuovere un
patto tra Nord e Sud, più che mai necessario per evitare divisioni
irreversibili tra le due aree: “l’apparato produttivo del Nord va supportato
per evitare che si spenga il motore della crescita italiana, per la verità da
tempo meno roboante di altri motori del Nord Europa. Ma c’è un pezzo di Paese
che ha il motore spento da tempo e va riacceso. A partire dalle fondamenta,
dalla ricostruzione dei diritti di cittadinanza negati”.
Altri studiosi, senza negare la
necessità di tenere alta l’attenzione sulle disuguaglianze Nord-Sud e sui loro
effetti, mostrano come l’Italia intera sia disseminata di “territori del
margine”,
per cui propongono di allargare la portata della riflessione sui divari di
cittadinanza, facendone una chiave di lettura della questione sociale di tutto
il Paese.
Questa prospettiva di analisi
propone di mettere al centro i bisogni delle persone che vivono nei luoghi, che
vengono perciò distinti in base alle opportunità concrete di esercitarvi i
diritti di cittadinanza.
La mappa del divario civile è un
altro modo di leggere la disuguaglianza su base territoriale; un modo che
integra e arricchisce la lettura verticale, ovvero quella condotta lungo l’asse
Nord-Sud, in quanto rivela che i divari di cittadinanza sono dappertutto. In
questa nuova mappa, elaborata nell’ambito della Snai (Strategia nazionale per
le aree interne), la dimensione fondamentale considerata non è quella urbana
(definita in base al numero di abitanti) ma quella del divario civile, per cui
vengono considerati poli i comuni
singoli o aggregati che permettono un agevole accesso ai servizi (scolastici,
sanitari, di trasporto) considerati essenziali, mentre i comuni restanti,
quelli periferici, sono divisi in quattro fasce, a seconda della loro distanza
dai poli. La mappa delle aree interne che viene costruita utilizzando tale
classificazione dà risultati sorprendenti: essa comprende il 60% del territorio
e il 52% dei comuni, interessa più di 13 milioni di abitanti, coinvolge
soprattutto le Alpi, la fascia appenninica e le zone collinari. Se si va più in
profondità nell’analisi dei dati, ci si rende conto non solo della diffusione
ma anche della eterogeneità delle aree interne, la cui presenza viene ad
esempio segnalata tanto nelle campagne della pianura padana che si vanno
spopolando, quanto nelle aree costiere del centro-sud, popolate solo d’estate e
prive di servizi per la popolazione residente.
Le situazioni più complicate si
riscontrano soprattutto nelle realtà più periferiche tra quelle marginali: sono
aree montane e collinari, che registrano una prevalenza di popolazione anziana,
anche come effetto di un progressivo spopolamento, con tassi di occupazione e
redditi medi inferiori rispetto a quelli delle zone centrali, con territori in
stato di abbandono, segnalato dalla perdita di superficie agricola utilizzata e
da fenomeni di dissesto idrogeologico.
Ripartire dai margini
Alla luce di questa analisi, è
importante assumere come prospettiva privilegiata quella delle aree interne,
allo scopo di favorirne l’emancipazione, anche attraverso la mobilitazione
degli attori appartenenti a tali contesti.
Il movimento emancipatorio non
esclude l’azione delle istituzioni pubbliche e le politiche di welfare, ma le
accompagna attraverso l’esercizio della solidarietà dal basso. Sono esempi di
emancipazione le forme di autorganizzazione di cittadini; le esperienze di
mutualismo, di accoglienza e di cittadinanza attiva; i processi di welfare
comunitario. L’emancipazione “riporta al centro la costruzione di comunità, in
una dimensione aperta, sia come elemento terzo tra Stato e mercato, sia come
modalità organizzativa inedita dei diritti di cittadinanza.
Cooperative di comunità che
erogano servizi, infermieri e ostetriche di comunità che si inseriscono nella
rete di assistenza territoriale, asili nel bosco e agri-asili, sistemi di
mobilità a chiamata gestiti in forma no-profit, nuove no-profit utility locali
per la gestione di risorse ambientali e di servizi alla popolazione, volontari
organizzati per offrire momenti di socialità agli anziani a domicilio, badanti
di borgo, cooperative di educatori che offrono nuovi modelli didattici per
innovare la scuola e accrescere le competenze degli studenti (…).
Queste innovazioni che spostano
l’erogazione di servizi verso un nuovo paradigma di welfare rappresentano modi
innovativi di composizione e aggregazione della domanda sociale, capaci di
valorizzare le risorse relazionali. Si tratta di nuove forme di mutualità
ancorate ai territori e alle comunità, che hanno importanti implicazioni
sociali, perché promuovono una (ri)socializzazione dei rischi e la condivisione
dei bisogni”.
Tali esperienze non sono alternative alle altre agenzie, ma sono espressione di
una comunità che si auto-organizza, attraverso processi di attivazione radicati
nei territori. Lo Stato non si defila, ma si pone come garante del bene comune
e delle regole generali entro cui si sviluppano questi percorsi di
autorganizzazione; per altro verso, “assume una postura promozionale e
capacitante non solo nei confronti degli individui, ma anche verso i contesti più
fragili e deprivati”, promuovendo partecipazione diffusa.
Percorsi emancipatori di questa
natura sono possibili nei contesti in cui riescono ad attivarsi reticoli
comunitari, ambienti capaci di promuovere la tessitura intenzionale e continua
di relazioni dotate di senso e, al tempo stesso, l’assunzione di responsabilità
nei confronti dei più fragili. Si tratta di cammini che possono diventare
importantissimi per un riorientamento delle politiche pubbliche, chiamate a
riconoscere le diversità dei luoghi, e a garantire dappertutto i livelli
essenziali di cittadinanza, a partire dai contesti più periferici, in modo che
ognuno possa vivere effettivamente una vita degna di essere vissuta.
Le disuguaglianze su base territoriale e le proposte delle Chiese del
Mezzogiorno. Che fare oggi?
Le disuguaglianze territoriali
hanno sollecitato l’attenzione della Chiesa italiana già a partire
dall’immediato secondo dopoguerra. Uno studio di Matteo Prodi
presenta il contenuto di tre lettere dei vescovi italiani sul Mezzogiorno,
pubblicate rispettivamente nel 1948
, nel 1989 e nel 2010,
ricostruendo per ognuna le vicende sociali e politiche che fanno da sfondo. Per
il fatto di essere stati realizzati in momenti diversi, lungo un arco temporale
di circa sessant’anni, i testi considerati presentano inevitabili differenze di
stile e di contenuti, ma anche elementi comuni e, in alcuni casi analisi e
proposte ancora attuali.
In tutti e tre i documenti, ad esempio,
traspare la convinzione che il Vangelo spinga a misurarsi con la vita concreta
delle persone, con le tensioni e le contraddizioni della storia, per cui le
situazioni di ingiustizia debbano essere rilevate e denunciate. Si afferma
perciò la necessità di un impegno personale e comunitario orientato a
riconoscere e a contenere o rimuovere le disuguaglianze che segnano il Paese.
Un altro elemento ricorrente è la
denuncia del mancato sviluppo del Sud e dei mali che colpiscono le regioni
meridionali, come la disoccupazione e la criminalità organizzata.
Particolarmente rilevanti, e in
parte ancora attuali, le analisi contenute nella lettera del 1989. Pubblicata
alla fine del periodo di massimo sviluppo dell’economia e delle politiche di
welfare, essa pone in evidenza i caratteri dello sviluppo del Paese,
definendolo incompleto e distorto. Incompleto perché ha lasciato indietro le
regioni meridionali. Distorto, perché “non solo non si è consentito al
Mezzogiorno di svilupparsi come altre regioni, creando disuguaglianze interne
ed esterne, ma addirittura lo si è incanalato verso strade che ne hanno
peggiorata la situazione”,
attraverso l’importazione di modelli di organizzazione industriale che non
hanno tenuto conto delle realtà locali e la penetrazione – facilitata dai media
– di modelli culturali che hanno avuto effetti disgreganti sul piano sociale ed
economico. Successivamente, la lettera del 2010 parlerà di sviluppo bloccato, a
proposito del fatto che i cambiamenti avvenuti nel corso dei due decenni precedenti
avevano reso ancora più stagnante la situazione del Mezzogiorno.
Nei tre testi si propone una idea
di sviluppo che non consideri solo gli indicatori economici, ma che metta al
centro le persone, le risorse e le vocazioni dei territori. A questo riguardo,
anticipando alcuni temi che ritroviamo oggi nel magistero di papa Francesco, la
lettera del 1989 evidenzia la necessità di “ripensare il modello economico, in
particolare il mercato, e il modello antropologico di fondo, allontanandosi
dall’individualismo, dal soggettivismo e dalla ricerca del godimento immediato.
Questi due ripensamenti devono stare insieme: solo una comprensione piena e
profonda dell’uomo può aiutare a rinnovare l’economia, mettendo la persona al
di sopra del capitale, senza che il profitto e l’accumulo siano gli idoli a cui
sacrificare ogni scelta economica”.
Per contrastare l’egemonia pervasiva del mercato, il documento suggerisce
prospettive ancora validissime, quando sottolinea la necessità di politiche
redistributive efficaci, in grado di affrontare il grave problema della
mancanza di lavoro, per esempio mediante l’allestimento di strutture,
infrastrutture e servizi in grado di favorire la nascita di realtà produttive
locali.
Nelle tre lettere si evidenzia
anche il fatto che uno sviluppo autenticamente umano esiga come essenziale
presupposto un lavoro orientato a favorire la maturazione delle coscienze e del
loro peso interiore. Da qui l’importanza dell’impegno educativo, a tutti i
livelli, e in particolare della scuola e dell’università.
Sono particolarmente densi i
passaggi in cui si esplicitano le condizioni affinché la Chiesa possa essere
soggetto in grado di contribuire a promuovere questo tipo di sviluppo. Si
tratta di condizioni che esigono la scelta della strada stretta, ma liberante,
del radicamento personale e comunitario nella profezia dell’ascolto del
Vangelo, in una condizione di povertà e di non potere.
In continuità con queste
indicazioni magisteriali, occorre raccogliere la sfida del divario civile e
delle aree interne anche dal punto di vista pastorale, interrogandosi su quale
tipo di presenza la Chiesa è oggi chiamata a garantire in tali contesti
periferici.
Nelle pagine precedenti, si è
evidenziata l’importanza, sul piano politico, di invertire lo sguardo e guardare
il Paese dalle sue aree interne, e da lì provare a pensare come riabitarlo,
come sostengono i promotori del “Manifesto per riabitare l’Italia”,
mettendo al centro le persone che vivono nei luoghi, dando loro voce,
promuovendone la capacità di attivazione.
Ad un movimento analogo di
conversione dello sguardo è chiamata anche la Chiesa, che nelle aree interne
potrebbe trovare le condizioni favorevoli per una rigenerazione delle comunità,
riscoprendo la centralità di ciò che conta e che non passa: la Parola e
l’Eucarestia, la tessitura intenzionale di legami fraterni, l’assunzione
comunitaria dei bisogni dei più fragili.
Più che nell’attivismo frenetico,
o nella gestione di progetti di intervento complessi - che hanno bisogno di
molte risorse finanziarie e di competenze specifiche sul piano gestionale, ma
che non sempre riescono a promuovere un reale coinvolgimento dal basso – le
comunità cristiane delle aree interne potrebbero coltivare la prospettiva della
“restanza”,
da intendere come assunzione consapevole della responsabilità dei luoghi in cui
si abita: “là dove si è rimasti bisogna cercare di costruire e di immaginare
una nuova vita. non possiamo limitarci solo a contare i morti, non possiamo
farci inghiottire dalle ombre e dai fantasmi del passato (…). Il nostro compito
è anche accogliere la vita che arriva, ricevere quelli che tornano, provare a
sostenere quanti non vorrebbero partire (…), sperando che anche questo possa
servire a costruire nuova comunità”.
La cura della natura e delle relazioni, la resistenza ai fenomeni di
devastazione dei luoghi e di desertificazione sociale, rappresentano atti
politici e, al tempo stesso, pastorali. Per dirla ancora con Teti, “riabitare i
paesi interni, riabitare la montagna, guardare al centro dalla prospettiva inedita
e umanissima della periferia, mi sembra possa essere una delle vie di salvezza
per l’intero sistema-Paese. (…) Il mio non è un elogio del restare come forma
inerziale di nostalgia regressiva, non è un invito all’immobilismo, ma è solo
il tentativo di problematizzare e storicizzare le immagini-pensiero del
rimanere come nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove aspirazioni, di
nuove rivendicazioni”.
Cassano allo Ionio, 26 Agosto 2022
✠Francesco Savino
Vescovo di Cassano all’Jonio
Vice Presidente CEI